La fotografia come “opera aperta” e specchio del sociale

Autori

  • Ghisi Grutter

DOI:

https://doi.org/10.15168/xy.v3i6.114

Abstract

Il MAXXI di Roma nell’autunno 2018 ospita una grande mostra dei lavori di Paolo Pellegrin, fotogiornalista associato della Magnum Photos. Nato a Roma nel 1964 pubblica sulle maggiori testate internazionali, collaborando con Newsweek e con il New York Times Magazine. Noto per i suoi reportage di guerra, è considerato uno dei più grandi e sensibili fotogiornalisti del nostro tempo: si è sempre mosso sul terreno della responsabilità richiesta dalla fotografia ogni volta che inquadra un soggetto per offrirlo al lettore. Le sue raccolte di foto di guerra o di catastrofi hanno un motivo dominate: la disgrazia non è mai palese, quasi sempre allusa. Spesso scatta un attimo prima o un attimo dopo l’evento, come fosse un fotogramma estratto da un filmato che chiede, a chi osserva, di ricostruirne la storia e di rifletterci su. Più che mettere in evidenza la violenza, sottolinea la tristezza: non descrive la catastrofe, ma capta il vuoto che resta dopo, ne fotografa la malinconia, induce alla riflessione. Le sue immagini sono trasposizioni poetiche di ciò che resta dopo uno tsunami, una bomba o un terremoto. La sua posizione è ben diversa da chi fissa con l’obiettivo il momento della disgrazia e spettacolarizza il dolore, sicuramente di grande impatto, ma che non fa pensare, non permette di andare oltre. Così afferma in un’intervista: «Io non credo di potere cambiare la testa a nessuno, e non è questo il compito che mi sento addosso […] le fotografie entrano in un circuito sociale, cariche di informazioni e di emozioni, acquistano nel loro vagare anche una vita propria, possono incontrare persone e coscienze e far nascere qualcosa. Una fotografia non è un’ideologia che stravolge le menti, è un seme: se sposta qualcosa lo fa piano, crescendo dentro chi la guarda. A questo credo ancora, lo dico da fotografo ma anche da lettore, perché nessuna fotografia esiste davvero se non incontra una coscienza che la accoglie e la completa». La foto, quindi, vuole “fermare” l’osservatore, è “un’opera aperta” che non fornisce risposte univoche e lascia lo spazio per interrogarsi.

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Pubblicato

2019-03-19

Come citare

Grutter, G. (2019). La fotografia come “opera aperta” e specchio del sociale. XY. Studi Sulla Rappresentazione dell’architettura E sull’uso dell’immagine Nella Scienza E nell’arte, 3(6), 18–35. https://doi.org/10.15168/xy.v3i6.114

Fascicolo

Sezione

06-2018-Articoli