L’immagine estrema
DOI:
https://doi.org/10.15168/xy.v1i1.15Abstract
La rappresentazione della “istituzione” come traduzione del significato di un edificio nella città in una forma architettonica duratura, collettiva, legata alla memoria dei luoghi e degli avvenimenti che in essi si sono svolti è oggi pressoché scomparsa. In effetti la funzione prima dell’architettura viene attualmente riconosciuta in un “nuovo funzionalismo” riletto alla luce della rivoluzione digitale. Un nuovo funzionalismo, centrato soprattutto sulla questione della sostenibilità, sugli aspetti sociologici dell’abitare e sul ricorso più allusivo che praticato alla partecipazione, articolato da una parte in una tecnologia mitizzata, nell’altra in un’identificazione del linguaggio architettonico con quello mediatico. Il tutto nel primato degli specialismi su una concezione organica e generalista della disciplina. La riduzione della complessità dell’architettura a una sua sola componente, che la globalizzazione ha peraltro amplificato al punto da renderla totalizzante, ha fatto sì che il progetto e la realizzazione del paesaggio, della città e degli edifici perdessero gran parte del loro senso più autentico. Questa privazione dell’essenza vitale del costruire può essere superata solo riaffermando la centralità dell’immagine come “luogo nativo” dell’idea dell’architettura. Una “immagine estrema”, che rifiuti sia gli orizzonti della comunicazione sia quelli connessi alla sua “strumentalità”, ovvero al suo ruolo nella fenomenologia delle operazioni necessarie a pensare e a rendere concreta quella stessa idea. Un’immagine come esito di una ricerca assoluta, ermetica e metamorfica sul contenuto reale e, per così dire, “immutabile” del costruire.